Per prima e più importante cosa, questo film realizzato da Ermanno Olmi & co (gli allievi dela sua scuola bolognese, anzi più gli allievi del firmatario stesso del film, se ho ben capito) mi ha spiegato in modo piuttosto sintetico – complice dei tagli e citazioni a effetto – cosa rappresenti, esattamente, Terra Madre. Se volete ve lo rispiego qui, malamente, con le parole mie: Terra Madre preconizza un ritorno alla natura (vs industria e globalizzazione), alla varietà (vs. prodotti standardizzati), al contatto con la terra, anzi, la concreta riapropriazione della terra (che in parte passa anche tramite la riappropriazione dei semi, che è un tema piuttosto interessante*) afinché si possa tornare a vivere e alimentarsi in un modo etico, ecologicamente responsabile, giusto per l’umano e per il pianeta, e otenendo dei cibi ‘autentici’ capaci di rispondere a quella fame ontologica che in effeti ciò che è industriale difficilmente riesca a placere. Insomma, tutte cose molto sensate e naturali che nell’ultimo secolo si sono man mano perse di vista e che di certo potrebbero fare solo bene a tutti, a noi occidentali snaturati messi per 78 minuti davanti a certe assurdità da noi create (o silenziosamente ignorate, che è la stessa cosa) e a terzo e quarto mondo più drammaticamente privati dalle funzioni elementari della terra, che è o dovrebbe essere, in principio, madre perché nutre tutti (in fondo, siamo di nuovo a quella cosa sensatissima di Père Pire che sosteneva che piuttosto che di dare il pesce all’uomo del terzo mondo, era molto meglio insegnargli a pescare – è una metafora, ovviamente :-). Una citazione su tutte, quella di Vandana Shiva che che dice in sostanza che i bambini malnutriti del terzo mondo e quelli obesi del mondo ricco sono due sintomi dello stesso identico meccanismo (marcio). Pensarci fa venire il vertiggine, insieme all’intima convinzione che in fondo abbia pensato e detto qualcosa di terribilmente giusto. E un esempio su tutti: quella della rete degli studenti statunitensi che si sono messi a coltivare a scuola le verdure per la loro mensa (e di esempi ce ne sono tanti tanti altri ma questo qui, per noi, l’ho trovato particolamente stimolante :-).
* il tema del ‘mercato dei semi’, fa un po’ da filo rosso a tutto il film, e appunto è una questione interessantissima alla quale non avevo nemmeno mai veramente pensato: per quanto ne ho capito, le industrie del mondo tendono a standardizzare i semi – in sostanza si perde in varietà, altro concetto interessante – e a organizzarli in mercato. Però visto che quei semi manipolati (contrariamente ai semi che si usano da quando il mondo è mondo) durano in genere un anno soltanto sono poi i semi – standard – stessi a obbligare i contadini a rinunciare alla varietà locale e a arrovigliarsi in un sistema di spese annue obbligatorie, che non ha nulla di naturale, e che, quando si vive nel terzo mondo, diventa anche una forma di sfruttamente economico piuttosto pesante, insomma, tutto ciò ha tutta l’aria di essere una forzatura eco-economica e il fatto che questo film lo sottolinei è importante, ci permette per lo meno di carpire una briciola di ‘come funziona il mondo’, e ci obbliga a pensare – e di ‘sti tempi poi l’attività del pensare è di per sé qualcosa di prezioso e importante di cui a tratti perdiamo un po’ l’abitudine, mi sembra (anche se magari dall’altro canto le manipolazioni potrebbero permettere raccolte più sostanziosa, o piante più resistenti, non ho idea, mera ipotesi mia….?)
La seconda parte del film racconta, in sostanza, le stesse cose, ma con mezzi diversi. Diciamo che la prima parte ci risulta più istituzionale e più eclettica dal punto di vista dello stile (anzi, diciamolo pure, è proprio un troppo patchwork di immagini di congresso, eventi europei, immagini di orizzonti lontani e paesaggio industriali nostrani), la seconda parte va più verso il documentario poetico, esaltando l’importanza dell’armonia naturale che è, in sostanza, un dolce ritrovo dell’uomo, stranamente dimenticato, in un modo più bucolico e diretto. Si tratta di due reportage sul campo, nel senso letterale, il primo racconta la vita di Ernesto, un contadino veneto vissuto per 40 anni in totale autarsi, il secondo è un lungo viaggio stanziale in un orto altoadesino, un silenzioso attraversare le stagioni in compagnia di un signore che semina, attende, verifica la crescita delle sue piante ecc (anzi, silenzioso non è, tutt’altro: nessuna voce umana ma l’amplificazione di suoi e rumori ‘della natura’, quelli li che conosciamo tutti e che fungono come dei balsami, quei rumori che ci fanno immediatamente stare bene). Sono in fondo due modi esacerbati, forse anche troppo ma ci tornerò in seguito, di far intravvedere una alternativa, che parlano con la forza e l’immediatezza proprie a ciò che è intimamente naturale.
Fin qui, e anzi sull’insieme del film e il messaggio che veicola, non posso davvero che entusiasmarmi, applaudire, e augurarmi che lo stesso possa succedere al più grande numero di persone possibili. Ha ragione Petrini, temo, quando annuncia in un modo che ricorda un pochino nostradamus ma in meno divertente, che cosi come sta andando questo nostro sistema non tiene la strada. E tutto ragionato, naturalmente terribilmente ovvio, eppure ci è voluto Slow Food per farcelo presente. Il grande merito di questo film è senza ombra di dubbio che spinge come poche altre opere (ed era senz’altro anche questo l’intento e non si può dire in questo senso che il film non sia riuscito) a una presa di coscienza, a un desiderio di azione (il punto poi è che quel desiderio deve mutarsi in azione e non rimanese un mero movimento dell’animo emozionato). I slowfoodisti in tutto questo sembrano dei valorosi guerrieri che stanno dalla parte del giusto (buono e pulito), roba che mi farei la tessera e l’orto anche domani :-). Però, e senza togliere nulla a quanto affermato prima perché si tratta davvero di virgole e di piccole note in margine, ci sarebbero paio di ulteriori piccole riflessioni che vorrei condividere, se non altro per meditarci sopra (mia nonna diceva che c’è più in due o più teste che in una sola, ecco :-) :
In cui si parlava di arte cinematografica
C’è qualcosa, nello stile di questo film (che di suo è un filino più rivolto verso il ‘film aziendale’ che non verso il vero e proprio film d’autore), laddove c’è (più che altro nella sua seconda parte), che mi fa vagamente pensare a quel modo insistentemente pedagogico che avevano anche la tivu e le pubblicità anni sessanta, come ad assumere che agli spettatori (che sono un po’ scemi) è meglio dire le cose in modo molto chiaro, molto palese, e magari aggiungendoci pure i sottotitoli. Qui i sottotitoli non ci sono, però la pesante insistenza su certe scene macro – una per tutte, quella del bambino che nell’orto vive la ”meraviglia” del contatto con la natura (mancava giusto uno slogan tipo ‘nella natura il vostro bimbo cresce più sano’) – l’ho trovata piuttosto irritante. Stessa cosa per l’esagerata amplificazione e/o la ricostruzione di alcuni suoni (voglio dire, non siamo più naif come quarant’anni fa, se vediamo la ruggiada che cade dai fogli, in macro, sentendo il rumore di gocce d’acqua che cadono, pensiamo a postproduzione, anzi, quasi che vediamo distintamente l’accessorista impegnato con pipette e secchi d’acqua a riprodurre i suoni che la macchina da presa non potrebbe aver colto (l’effetto ‘il suono dei passi del comissario Derrick sul marciapiede bagnato’). Insomma, parere personale però avrei preferito una poetica un po’ meno artefatta e un po’ meno forzatamente a effetto (perché cosi come bisogna essere fiduciosi nella natura e nella sua capacità di rigenerarsi, bisogna essere, a volte, fiduciosi nell’uomo e nella sua capacità di meravigliarsi, di essere colto dalla semplice poesia delle cose, evitando di volerlo ingozzare direttamente con l’essenza distillata della poesia, credo, ecco :-)
Ernesto & il mito del buon selvaggio
Lo dicevo prima, un buon quarto del flm narra la storia e l’abitat di Ernesto, contadino veneto, morto nel 2004. Ernesto da 40 anni viveva solo e ritagliato da tutto e tutti, in totale autarsia, coltivando e consumando poche umili verdure (più vegan di così? :-), cucendo i suoi stessi vestiti usando stracci superstiti e rifiutando ogni immiscione esterna, campando senza luce né gaz. Accessoriamente ne risulta che Ernesto ha cosi creato un microcoscmo, anzi un biotopo, perfettamente equilibrato, incontaminato. Si assiste quindi a questa scena – forse l’unica veramente diretta da Olmi – in cui ‘delle grandi menti’ sedute intorno a un tavolo nel giardino di colui che nel inverno del 2004 è morto di fame e di freddo (la terribile estate del 2003 aveva praticamente distrutto la sua raccolta dell’anno), a estasiarsi su ciò che dovrebbe diventare il primo presidio di Terra Madre, e un modello – seppur irraggiungibile – per tutti. Ecco, io qui mi fermerei un secondo perché questa cosa qui non mi va proprio giù. Perché intanto Ernesto, visto da fuori, sembrava francamente più affetto da una qualche forma di autismo più o meno grave, e di certo non di convinto ecologismo (stiamo parlando di 40-50 anni fa, l’ecologismo non si sapeva cosa fosse e bene o male tutti producevano molte cose in casa), e capisco che non sia, di per sé, posto come ‘modello da imitare’ però è pur sempre un modello, uno dei due casi particolari sui quali questo film indugia. E come dovrebbero averci insegnato due milenni di cattolicesimo, porre come modello (aggiungerei in questo caso ‘discutibile’) per tutti un esempio irraggiungibile d’emblée, tende a creare frustrazione e infine abandono. E invece, e in realtà spero davvero di sbagliarmi, Ernesto mi è sembrato esattamente il Cristo di Terra Madre. Un Cristo autistico, emotivamente fragile e rifugiatosi dai suoi simili. A meno che, non fosse il gran ritorno del mito del buon selvaggio (che dopotutto sono solo due secoli e mezzo che ogni tanto rispunta fuori). In ogni caso, a me il ritorno alla terra sta benissimo, ciò che mi va molto meno bene e di farlo portandosi dietro un’icona del genere (voglio dire, visto che ci siamo, non è che potremmo anche sceglierci un Buddha più sociale, positivo e felice, per caso??)
Chi non ha peccati scagli il primo caricabatteria
Sempre nel solco della storia ernestiana, e poiché anche l’altro esempio, altoadesino, mostra una situazione molto agricola di altri tempi e quindi molto poco contemporanea, dal punto di vista dell’infrastruttura, e nonostante io sia convinta che less is more e che faremmo meglio a spegnere la tivu più spesso, trovo di nuovo questi esempi un filo troppo in là, troppo vicini a ciò che noi non potremo mai realizzare. Cosi la domanda, altrettanto estrema, sorge spontanea: ma voi, uno di voi, qualsiasi, che abbia pensato, scritto, girato o contribuito in un qualsiasi modo a questo film, a questo movimento, vorrebbe davvero vivere così? Sarebbe disposto a rinunciare a tutto, al paro di un monaco eremita? Appendendo al chiodo ogni sorta di filo elettrico ed elettronico e insieme a loro tutto ciò che di fatto fa la nostra vita, anche sociale? Sedendosi davanti alla finestra di casa, fissando il vuoto, la pioggia, il lento passare del tempo, aspettando che crescano i faglioli?? Io penso, e temo di non sbagliarmi affatto, che la risposta sia immancabilmente – no. Per cui mi chiedo un pochino perché gli ‘esempi’ debbano essere così drasticamente agricoli quando la realtà, cioè una vera soluzione pratica e concreta per noi, di ritorno alla natura e all’agricoltura dovrebbe essere, per forza di cose, un misto conciliando modernità e consapevolezza dei gesti e di tutte le cose semplici ed elementari che stiamo perdendo per strada. Ecco, di nuovo, per me, avrei preferito, invece di vedere due pezzi di una vita lontana da me come lo sarebbe il pianeta Pandora, delle situazioni concrete, vere, in cui qualcuno è riuscito a conciliare vita moderna con un atteggiamento ecologicamente e eticamente responsabile (e di esempi ce ne sono), in qualche modo, per me spettatore, sarebbe stato più profitabile, perché quelli avrebbero potuto essere degli spunti veri per la mia vita quotidiana vera (e certo io non sono il centro del mondo e Terra Madre ha a che vedere con il pianeta e non solo con il mondo occidentale, però stiamo pur sempre parlando di un film italiano…). E con questo arrivo al mio ultimissimo punto…
Voglio una vita da supermercato…
Ovviamente è solo una battuta per fare rima. Di nuovo lascio molto europacentricamente da parte il discorso ‘terzo mondo’ per il quale in realtà tutto questo ha molto più senso, e torno alla mia vita di piccola italiana media, che trascorre le sue giornate fra macchina, lavoro, casa, e… supermercato. Ecco, io, per la mia piccola vita, e per poter assecondare in qualche modo l’entusiasma teorico che mi nasce dal leggere e sentire i programmi di Slow Food e Terra Madre, vorrei delle risposte e dei suggerimenti che riguardano la mia vita concreta, il mio quotidiano. Certo, i prodotti presidiati sono belli e buoni, ma io me li trovo e compro solo quelle tre quattro volte l’anno che vado in gita. Certo, sarebbe bello avere l’orto ma mi andrà già bene se con il mutuo sulle prossime due generazioni mi daranno due metri quadri di terrazza con vista cortile. Il resto del tempo sono abbonata al super sotto casa (perché, anche se poi magari qualche volta ci vado, non ho il tempo concreto di attraversare la città alla ricerca della gastronomia chic che mi venda 1kg di fagiolini di pigna a 10 euro per la mia pasta quotidiana, e via dicendo). Quindi, nell’insieme, io vorrei davvero capire come potrei fare per dare alla mia esistenza, giorno per giorno, un’impronta più giusta e pulita (e magari anche buona). Ecco, qui, su questo punto, mi sembra si stia creando un enorme gap che nulla colma, e personalmente non vorrei che per me o per altri, il mondo Slow fosse solo un sogno bello, lontano e che non avesse in finis nulla a che vedere con come acquisto e consumo al quotidiano. Certo, degli elementi di risposta ci sono (e magari anche più praticabili di ‘beh trasferisciti in campagna e costruisciti una casa ecologica’), ci sono i gruppi di acquisto, e mille altre cose, però in fondo non è Slow Food stesso a dirmelo, quindi ecco, la mia domanda e il mio augurio a Slow Food sarebbe esattamente questa: di pensare e di avicinare anche la quotidianità della gente media dotata di buona volonta ma di poca capacità di azione – cioè della gran parte di chi vive in europa – e suggerire modi altrettanto concreti per cambiare significativamente qualcosa nel quotidiano modo di essere…
Terra Madre
un film documentario di Ermanno Olmi
prodotto dalla Cineteca di Bologna, ITC movie e Slow Food
dvd Feltrinelli
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