Quando appena arrivata a Kyoto cercavo in giro per la rete delle informazioni sul tofu, sono finata sul blog di un signore che si chiama Harris Salat, che aveva visitato un piccolo artigiano molto carino, cosi gli scrissi per sapere dov’era sto posto. Il piccolo produttore nel mentre si era pensionato, però fra le cose che mi disse Harris c’era la raccomandazione di visitare un giorno il mercato dei contadini di Ohara, un paesino rurale poco distante da Kyoto. E questa cosa mi era rimasta in mente.
Solo che, visitare il mercato di Ohara presenta qualche problemino organizzativo: il mercato si tiene la domenica mattina, in un paesino che si trova 10km a nord di Kyoto, raggiungibile in un’oretta con il bus (stazione centrale di Kyoto, fermata C3, linee 17 e 18, bus color latte macchiato), nei seguenti orari: 6h-10h. Ah, e dimenticavo, la consegna era: vacci presto che poi la roba finisce. Insomma, per arrivare presto partendo da kyoto quasiquasi che era meglio non andare a dormire…
E infatti, la primaria occupazione, nostra e degli indigeni, sul mercato al mattino presto, è stata di riscaldarsi, con qualsiasi mezzo: ciotoline di zuppa di miso e, nel nostro caso, diversi bicchierini di carta di caffè bollente. Poi però pian pianino si è alzato il sole a riscaldare prima i campi circostanti e poi anche i visitatori mattutini… :-
Cosa si vende quindi al mercato di Ohara? Beh, su per giu, ciò che viene coltivato o prodotto qui. Ma la prima cosa che mi ha colpita girando per il mercato, e che assomiglia molto a una (ennesima) passione nazionale, è l’attrazione dei giapponesi per i rami con boccioli colorati (i quali in effetti sono anche molto decorativi, diciamo che è l’ennesimo esempio di wabi-sabi – che è in qualche modo la chiave di volta dell’estetica giapponese, ha a che vedere con quella semplicità elegante che è tanto riconoscibile nelle cose giapponesi – in realtà è un pochino più complesso, leggetevi intanto la voce wiki, è interessante :-)
In ogni caso, in questi rametti ma anche in molte altre cose, quotidiane o meno, per andare a finire persino nel foodstyling (??!!!) delle riviste e dei libri di cucina giapponesi, questa sobrietà povera che sfocia in una commovente eleganza quasi melancolica, è davvero ovunque, e proprio questa esplorazione del non perfetto (perché nulla lo è, e qui ne sono molto consapevoli, e noi in qualche modo soffriamo l’eccesso opposto) è davvero un esercizio dello spirito che noi occidentali dovremmo imparare :-) Anzi, al riguardo (scusate l’entusiasma però ho trovato la mia personalisisma bibbia, che devoffa’? :) vi lascio qualche pezzettino di un testo dell’architetto Tadao Ando, che penso fa ben capire quanto il concetto sia interessante (mi sembra la classica situazione in cui è stata codificata e pensato su un sentimento che fin qui avevo solo intuito, un po’ come quando per la prima volta uno legge Merleau-Ponty, o Sartre :-) e applicabile anche a, per dire, cose come, per esempio, la fotografia… (e io che mi chiedevo cos’è di preciso quella cosa rarefatta ed elegante che c’è nello sguardo dei fotografi food – e non – giapponesi e che noi non abbiamo, beh, direi che questo tanto per iniziare è un buon elemento di risposta… Potete leggere l’interessantissima integrale qui
What is wabisabi?Pared down to its barest essence, wabi-sabi is the Japanese art of finding beauty in imperfection and profundity in nature, of accepting the natural cycle of growth, decay, and death. It’s simple, slow, and uncluttered-and it reveres authenticity above all. Wabi-sabi is flea markets, not warehouse stores; aged wood, not Pergo; rice paper, not glass. It celebrates cracks and crevices and all the other marks that time, weather, and loving use leave behind. It reminds us that we are all but transient beings on this planet-that our bodies as well as the material world around us are in the process of returning to the dust from which we came. Through wabi-sabi, we learn to embrace liver spots, rust, and frayed edges, and the march of time they represent.
Wabi-sabi is underplayed and modest, the kind of quiet, undeclared beauty that waits patiently to be discovered. It’s a fragmentary glimpse: the branch representing the entire tree, shoji screens filtering the sun, the moon 90 percent obscured behind a ribbon of cloud. It’s a richly mellow beauty that’s striking but not obvious, that you can imagine having around you for a long, long time (…) It’s the peace found in a moss garden, the musty smell of geraniums, the astringent taste of powdered green tea.Wabi stems from the root wa, which refers to harmony, peace, tranquillity, and balance. Generally speaking, wabi had the original meaning of sad, desolate, and lonely, but poetically it has come to mean simple, unmaterialistic, humble by choice, and in tune with nature. (…) A wabi person epitomizes Zen, which is to say, he or she is content with very little; free from greed, indolence, and anger; and understands the wisdom of rocks and grasshoppers. (…) Sabi by itself means “the bloom of time.” It connotes natural progression-tarnish, hoariness, rust-the extinguished gloss of that which once sparkled. It’s the understanding that beauty is fleeting. Sabi things carry the burden of their years with dignity and grace: the chilly mottled surface of an oxidized silver bowl, the yielding gray of weathered wood, the elegant withering of a bereft autumn bough. (…)
There’s an aching poetry in things that carry this patina, and it transcends the Japanese. We Americans are ineffably drawn to old European towns with their crooked cobblestone streets and chipping plaster, to places battle scarred with history much deeper than our own. We seek sabi in antiques and even try to manufacture it in distressed furnishings. True sabi cannot be acquired, however. It is a gift of time.
Tornando ai nostri cavoli, cioè alle verdure del mercato, in sostanza, a Ohara si trovano sottaceti di verdure e di alghe (tsukemono), qualche signora che vende dei rotolini maki fatti in casa, altre signore che vendono pani e panini dolci (utili se stavate giusto prendendo il caffè in loco :-) e tante verdure appena strappate alla terra dei dintorni (c’erano persino delle erbette che portavano ancora le traccie della ruggiada ghiacciata, voglio ddi’, più freschi di cosi?!… :-). E infatti questo mercato pare sia anche molto frequentato dagli chef di Kyoto. L’insieme in qualche modo, immagino per la cura del dettaglio, mi ha fatto pensare – in quanto sia il mercato più simile a questo che abbia visto in precedenza, ma poi ovviamente per molti aspetti era anche molto diverso – a Borough Market, vai a capi’ :-)
Infine, lato cibo, poiché qui, come su tutti i mercato giapponesi visti fin qui, si mangia: spiedini grigliati (utilissima anche la carboncella per riscaldarsi le mani :-), zuppa di miso e un piccolo banchetto perennemente preso d’assalto (stiamo parlando delle 7 del mattino eh..!! :-) dotato di una piastra sulla quale venivano cotti takoyaki e okonomiyaki. E infine, beh infine è spuntato fuori il sole, sciogliendo i campi e i corpi, e a quel punto non ci restava che riprendere la strada verso i templi buddisti di Ohara… :-)
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