Finché ero in Giappone pensavo che sarei tornata un filo diversa, e nel contempo pensavo che probabilmente ponendo il primo piede sul suolo romano sarebbero svaniti tre mesi di inchini rispettosi, di fontanelle tappezzate di muschio verde, di petali di fiori sparsi sui marciapiedi, di vecchie signore curve sul minicarellino della spesa, di cappellini eleganti e di sapore di dashi, e il modo pacato e sereno in cui tutto questo era diventato quotidiano. E in un certo senso è andata cosi, ho guardato estereffatta il suolo pubblico sporchissimo, ho guardato il primo piatto di pasta con occhi nuovi, sono rimasta perplessa quando per la prima volta hanno mancato di investire me e il cane sulle strisce pedonali (ma tanto la seconda volta è arrivata subito dopo) e persino le scritte in romanji sui muri della città mi facevano uno strano effetto. Il familiare e l’esotico avevano scambiato posto, ma è durato solo un attimo, e subito dopo ero già sguizzata via, esattamente come i pesci ributtati nell’acqua.
E quindi sono tornata. La mia cucina mi è sembrata grande, proprio grande, i miei ustensili tanti, proprio tanti (forse addirittura troppi?). Anzi, davvero, consiglierei a chiunque di assentarsi per tre mesi da casa propria, quando poi ci torni vedi le cose in modo diverso, sei un po’ un’altro ma non troppo, come se avessi spolverato dentro di te, e di conseguenza ti metti a fare pulizia e la riorganizzazione anche intorno a te, in casa ma neanche solo lì. In ogni caso, qui come li, la prima cosa, o quasi, da fare, è stata la spesa. Anche perché il frigo era perfettamente vuoto e dalla dispensa avevo buttato tutto ciò che avrebbe eventualmente potuto fare da comodo nido a quelle simpatiche farfalline che sono senz’altro l’incubo di ogni fervente accumulatore di ingredienti in dispensa. Soit, pianpianino il frigo ha accolto i primi ospiti. Prima il natto scongelato in volo, e il matcha, e il nigari e i fiorellini di sakura sotto sale, e altre cosettine strambe riportate dal Giappone che hanno lo strano potere di farmi sorridere e di rassicurarmi, anche solo a vederli (e non vi dico che è stato quando a Milano ho trovato la stessa identica salsa di sesamo per shabushabu che a Kyoto avevo sempre in frigo e che mi sarei anche sparato, potendo, in endovena :). Poi è arrivato un vasettino con dell’aglio orsino fresco (lo adoro, ne ricordo il profumo che galleggiava sui sentieri lungo i fiumiciattoli del Lussemburgo, gli stessi che sono indissociabili dal profumo delle trote che ci pescava mio padre), e infine, subito dopo il primo necessario da sopravivenza (renkon, miso, edamame, e altre cose così) la spesa seria, uova burro latte e via dicendo (anche perché mi aspettano chili e chili di biscottini e altre cosette da provare e riprovare ma questa è un’altra storia che sarà in libreria a ottobre :)
In tutto questo però un po’ di confusione in testa ce l’avevo, o piuttosto da un lato avrei una certa lieve nostalgia fisiologica di riso bianco e di tsuyu, ma nel contempo alla prima occasione in cui sono passata davanti al verdurivendolo non ho resistito all’acquisto di una bustona di fave fresche e mi è sembrato di comprare della primavera al peso :) Al supermercato invece avevo preso per mera curiosità una confezione di pasta integrale dalla confezione, piuttosto sobria equasi elegante, mai vista prima (sono le bavette di un marchio che non citerò, insomma inizia con b e finisce con arilla :) e poi avevo anche preso un paio di formaggi, ma con le pinze (mi rendo conto di dire una tremenda eresia ma non ne avevo mangiato per tre mesi e non mi mancavano, anzi), insomma, fra tutte le cose che sono arrivate in cucina, le bavette, le fave, la feta e l’aglio orsino sono spontaneamente andati a cristalizzarsi intorno alla voce ricetta nella mia testina ancora un po’ confusa (sono già sorpresa che non ci è finito manco il sesamo qui dentro :), e ne è però venuto fuori un qualche cosa di profumoso, primaverile, quasi sano, insomma, uno di quei piatti capaci di farti riconciliare con più o meno qualsiasi cosa :)
Ricetta, più o meno per due: pulire 500g di fave fresche, sbollentare le fave poi scolarle, passarle sotto l’acqua fredda ed eliminare le pellicine. Frullare le fave con 30g di feta, 2 foglioline di aglio orsino (se non ne avete a disposizione usate un pezzettino di aglio fresco, o un po’ di erba cipollina, ciò detto, se riuscite a trovarlo è meglio – essu, per una volta che non sto a parlarvi di strambi ingredienti esotici :) – che da all’insieme un profumo davvero fan-tas-ti-co! :-), e un generoso fino di olio d’oliva, fino a ottenere una crema non troppo liquida (aggiustare il condimento ma data la feta non dovrebbe esserci bisogno di aggiungere altro sale). Far cuocere la pasta e versare la crema in una ciotola capiente. Diluire la crema con uno o due cucchiai di acqua di cottura della pasta, scolare la pasta e mescolare energicamente con la crema. Annusare il profumino stupendo che si alza dalla pasta. Condire eventualmente con un po’ di pepe nero. Servire subito.
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