Francamente era da un po’ che non mi capitava di leggere un libro per intero (a meno che sotto la voce ‘libro’ si potessero includere opere quali ‘il primo anno del mio bambino’ nonché l’integrale de La Pimpa?). Quest’anno però, complice un giorno di pioggia in estate, ho potuto anch’io, lusso inaudito, leggere un libro (Evvaiii!!). Certo, si è trattato di un giallo, una cosa da vacanza, dicevano, e certo, i volumi di Balzac divorati sulla spiaggia di Saint-Malo sono solo uno sbiadito – quanto surreale? – ricordo ormai, però ecco, mi sono finalmente messa in pari con la quota annua di libri letti pro capita in Italia, mi pare un buon segno. E comunque, com’era prevedibile, è finito che quel libro mi portasse in cucina.
Il libro in questione s’intitola ‘Il giorno dei morti‘ e lo ha scritto Maurizio De Giovanni. Dall’entusiasma di chi le lo ha fatto conoscere, l’autore mi sembrava il figlio spirituale di Cammilleri e Vargas. E infatti, fin dalle prime pagine il libro risulta persino un filo irritante per quanto proprio Camilleri (e i suoi carabinieri vernacolari da teatro de boulevard) e Vargas (con quelle sue atmosfere dense, sintetiche e appena surreali) sembrano dei modelli amati se non timidamente imitati. Purtroppo però, dopo Camilleri, non puoi inventarti un maresciallo sempliciotto parlando un melting pot fra dialetto e italiano senza far alzarsi qualche sopracciglia. Ma quella sensazione di déjà vu si dissipa quasi subito, man mano che ci si immerge, quasi senza accorgersene, nell’atmosfera del libro. De Giovanni racconta un’autunno napoletano di oltre 80 anni fa, un mondo ancora antico che sta per mutare, il cui carattere monumentale e analogico dà alle esistenze una linearità e una pulizia esemplari. In questa città senza cellulari né motorini né televisori si aggira il commissario Ricciardi, solitario, introverso, sensibile, e determinato a chiarire le circostanze del decesso di Tettè (Matteo), uno scugnizzo orfano e balbuziente che per unico amico aveva un cagnetto meticcio. Piove perennemente su Napoli in quei giorni, e quel freddo liquido, quegli odori di pietra bagnata, quel tempo lento che marcia verso l’inverno ti arriva tutto, fra le righe del racconto, fisicamente. Nel mentre si cerca di capire, a tentoni nel buio, come e perché è morta quella creatura così innocente da sembrare quasi l’incarnazione di tutto ciò che di bello e inconsapevole ci sia al mondo. Il finale è, ovviamente, a rovesciamento copernicano, e l’insieme è ben altro di un romanzetto estivo da dimenticare, è di quelle lettura che rimpiangi già non appena girata l’ultima pagina. Vorresti ce ne fosse ancora un po’, vorresti assaporare ancora quel luogo lontano, affondato nel tempo, dove tutto è lento e ci si corteggia con uno sguardo dalla finestra di fronte, vorresti afferrare al volo la mano di quel bambino, prima che fosse troppo tardi. Invece è tutto irrimediabilmente finito.
A allora, non avendo più pagine da leggere né avventure da seguire, ho, più prosaicamente, preparato una torta. Un torta che appare in mezzo al racconto, sulla tavola della vecchia balia del commissario: Rosa li per li ne taglia due fette da gustare insieme a una sua giovane vicina di casa. Si chiama migliaccio questo dolce, e non ne avevo proprio mai sentito parlare. A quanto pare si tratta di un tipico dolce napoletano di fine inverno (un po’ come la pastiera, che ricorda vagamente), composto di semolino, ricotta, uova e zucchero e profumato con l’acqua di fiori d’arancio. Il migliaccio avrebbe origine nella Roma antica, e per quanto non fosse un dolce autunnale, ho trovato che si abbinasse perfettamente con l’atmosfera del libro, essenziale, lineare, quasi frugale, è povera e ricca nello stesso momento, proprio come la Napoli che traspare nel libro.
Migliaccio napoletano
latte fresco 1 litro
ricotta fresca 500g
zucchero 300g
semola 250g
uova 5
limone non trattato 1
burro 20g
estratto naturale di vaniglia 1 cucchiaio
acqua di fiori d’arancio 7cl
cannella macinata mezzo cucchiaino
sale 1 pizzico
1. Portare a ebollizione il latte con il burro e il sale. A ebollizione, versare il semolino, lasciar cuocere per qualche minuto mescolando, spegnere e lasciar raffreddare.
2. In una ciotola capiente, versare la ricotta e metà dello zucchero. Lavorare a crema con una forchetta, aggiungere l’estratto di vaniglia, la cannella, la buccia grattugiata del limone e l’acqua di fiori d’arancio.
3. Sbattere le uova con lo zucchero rimanente. Incorporare la crema di ricotta, poi il semolino cotto nel latte. Mescolare il tutto con cura fino a ottenere una crema densa e senza grumi.
4. Versare il tutto in uno stampo tondo di silicone di 24cm diametro. Livellare la superficie e infornare a 180°C per 45 minuti o fino a quando la superficie sia leggermente dorata. Sfornare, lasciar completamente raffreddare e capovolgere il dolce su un piatto.
Infatti!!! Fatto col semolino e uscito ottimo, anche la consistenza proprio giusta. Fatto due volte: una con i canditi ammollati nell’acqua di fiori d’arancio, e una volta con i mirtilli rossi! Grazie !!!!
Ciao Barbara, scusami se ti rispondo solo ora!! Allora, anche a me la questione semola/semolino mi ha sempre un po’ confusa. Per scrupolo ho provato con entrambi e a me personalmente mi piaceva molto di più la versione con il semolino (che mi sembra anche più adatto ad essere cotto nel latte, la semola rivaccinata si addensa ugualmente ma tende più a fare grumi), in ogni caso, la ricetta funziona con entrambi, cambia solo un po’ la consistenza del dolce finale :)
Ciao Sigrid, accogliamo con piacere questa tua nuova proposta, sopratutto perché ha l’acqua dei fiori d’arancio, che per me è il sapore del paradiso. Due domande:
Semola, intendi quella fina, vero? (no semolino, vero?)
Uova, che succede se metto tre uova invece di cinque?
Grazie
la buona notizia è che il libro ha un seguito….. anzi tipo cinque o sei! Bentornata Sigrid
Ciao, ho provato il migliaccio in Corsica quest’estate, anche lì è una ricetta tradizionale, lo fanno più sottile e salato in forme simili a focaccine. Questo sembra delizioso, adesso lo provo e magari aggiungo dei chicchi di cioccolato all’impasto..
Wow Sigrid bentornata! e sei anche tornata con uno dei miei scrittori preferiti degli ultimi due anni! Ho scoperto De Giovanni grazie a un amico e ne sono rimasta incantata! I libri del commissario Ricciardi poi sono quasi una droga. ne vorresti leggere ancora e ancora, quell’atmosfera malinconica e quest’uomo combattuto e triste…. beh ce ne sono tanti , se sei al primo libro, per cui buona lettura e non te ne pentirai!
nel frattempo io provo il tuo nuovo dolce!!!
… dimenticavo : è un piacere anche per le foto !
Coucou !
che piacere leggerti di nuovo ! per la ricetta, certo, ma soprattutto per l’atmosfera che riesci a creare con i tuoi post.
E comunque, se vuoi rileggerti un Balzac sulla spiaggia a St Malo… noi siamo qui ;-)
A presto
Laura
Quando le parole ispirano ricette significa che hanno toccato corde profonde. Come quelle che tocchi sempre tu con le tue, leggera e vitale, sempre.
Lo confesso, mancavi! Tornavo al cavoletto di tanto in tanto per vedere se c’erano buone nuove da leggersi e gustarsi…Ma eccoti finalmente e con una ricetta fantastica!
Sigrid ben tornata!!!! Grazie per il migliaccio …io l’adoro e il tuo è anche bellissimo da vedere..pensavo di aggiungere sopra la salsa di pesche del tuo cheese cake per farne un dolce al cucchiaio da fine cena che sia un inno all’estate che finisce…un grazie soprattutto da mio nipotino allergico all’uovo per l’idea delle meringhe vegan..all’idea del marengo si è commosso !!! Baci Baci
E’ un dolce che si fa a Carnevale ma hai dimenticato i canditi, la mia nonna li metteva sempre! ( e lo chiamava “migliaccio dolce” forse per distinguerlo da qualche altra preparazione simile ma salata )
Bentornata. E complimenti, ogni volta è un piacere leggerti, non solo per le ricette.
wow!! è bello rileggerti!! che stampo in silicone hai? carino con la quadrettatura sul fondo.. sembra quella degli stampi apribili in alluminio.. ;-)
Wow… I love it!